IL MAESTRO

      ROBERTO FASSI     

 

 

 

 

Roberto Fassi uno dei più noti maestri italiani di arti marziali, è stato uno dei pionieri europei di karate, kobudo e kung fu. Nato a Roma nel 1935, si laurea in chimica industriale e comincia la pratica del Judo negli anni '50. Grazie anche all'aiuto del Maestro Henry Plee, invia una lettera alla JKA (Japan Karate Association) chiedendo l'invio di istruttori per insegnare Karate Shotokan. Nel 1965 arrivò colui che doveva dare un impulso decisivo allo sviluppo del karate nel nostro paese: il maestro Hiroshi Shirai,Taiji Kase, Masatoshi Nakayama sono solo alcuni dei grandi nomi che il Maestro Fassi riuscì a portare in Italia. E' stato arbitro internazionale ai campionati mondiali di Los Angeles-1975- e Tokio -1977-  Ha studiato le armi del karate -kobudo di Okinawa- con il maestro Toshio Tamano e gli stili cinesi con il maestro Chang Dsu Yao. E' anche autore di diversi libri di arti marziali.

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

ALCUNI MOMENTI DELLO STAGE

 

 

Intervista di Sergio Roedner al M° Fassi.

 

In questa esauriente intervista, che dedichiamo soprattutto ai più giovani tra i lettori di Samurai, il

maestro Roberto Fassi, insegnante e cultore di varie arti marziali giapponesi e cinesi, ma soprattutto

indiscusso padre del karate italiano, rievoca le origini, se non mitiche, certamente epiche di questa

disciplina in Italia e dice la sua sull’evoluzione (o involuzione) delle arti marziali nel nostro Paese.

 

- Vuoi parlarci delle radici del tuo interesse per il karate?

 

- A metà degli anni 50 facevo judo col maestro Koike al Jigoro Kano di Milano. A quei tempi

usciva una rivista chiamata Revue Judo Kodokan, il cui redattore era il maestro Henry Plée.

 

 

Questa rivista, la prima del suo genere in Europa, aveva pubblicato una serie di articoli su una

nuova arte marziale chiamata karate. Io avevo cominciato a leggerli, mi ero appassionato e avevo

scoperto che veniva praticato in Francia dal maestro Plée. I miei primi inizi però sono stati col

maestro Shoji Sugiyama di Torino, che era allora 5°dan di judo e 6°dan di aikido. Credo che fosse

anche primo o secondo dan di karate, ma non voleva insegnarlo, anche se molti allievi glielo

chiedevano. Finalmente - stiamo parlando della fine degli anni 50 – inizio degli anni 60 -

Sugiyama fece partire una corso di atemi. Lui non lo chiamava karate, ma era in pratica un corso

di kihon, i fondamentali del karate. Io mi precipitai a iscrivermi. Lui era del gruppo del maestro

Mochizuki, il cui padre Minoru praticava diverse arti marziali, era il più “dan-ato” del Giappone.

Andai da Sugiyama nonostante la gelosa opposizione di Koike, ma ben presto mi resi conto dei

limiti del corso di Torino e decisi di andare direttamente a Parigi, nel dojo del Maestro Plée. Era il

1962.

Plée aveva più di 100 allievi che stipava nella sua palestra di 70-80 metri quadrati, e invitava

frequentemente dei maestri giapponesi, tra i quali Oshima, Mochizuki e Nanbu. Ci allenavamo tutti

insieme, indipendentemente dal grado, in un clima di indescrivibile entusiasmo.

 

ALCUNI MOMENTI DELLO STAGE

 

 

- Come è nata la tua decisione di invitare in Italia il Maestro Shirai?

 

- Nel 1963, non appena fui promosso cintura marrone, iniziai a insegnare karate ad un piccolo

gruppo di allievi del Jigoro Kano ma, man mano che la pattuglia si ingrossava, sentivo il bisogno

di essere aiutato da qualcuno più bravo di me ed invitavo periodicamente i maestri Nanbu e Chouk,

un formidabile combattente, reduce dalla guerra in Indocina.

Nel 1965, quando i miei allievi superavano ormai il centinaio, decisi che era il momento di invitare

a Milano, in pianta stabile, un maestro giapponese. Ho chiesto consiglio a Plée e lui mi ha detto: “I

migliori sono quelli della JKA, io però non li invito perché sono dei rompiballe. Quando arrivano

vogliono comandare loro, però se tu vuoi invitare qualcuno, chiama loro. Io conosco benissimo il

maestro Nakayama e posso scriverti una lettera di raccomandazione. Tu hai una palestra tua?”

Risposi di no. “Allora a te non romperanno troppo le balle”. Così scrissi a Nakayama, allegando la

lettera di Plée, e lui mi mise in contatto con quattro suoi istruttori che si trovavano allora in

Sudafrica: Kanazawa, Kase, Enoeda e Shirai. Dei quattro l’unico libero da impegni era il maestro

Shirai, che però voleva andare negli Stati Uniti per seguire il suo maestro, Nishiyama. La mia

lettera (scritta in realtà da mia moglie) lo persuase a cambiare idea e nel novembre del 1965 arrivò

a Milano in compagnia di Kase, Kanazawa ed Enoeda. Diedero una fantastica dimostrazione nella

palestra secondaria del Palalido, intrattenendo il pubblico da soli per ben due ore. Confortato dal

successo della dimostrazione e dalla costante crescita delle iscrizioni ai corsi di karate, Shirai

decise di restare in Italia e poco dopo, per dissapori con il gestore del Jigoro Kano, si diede alla

ricerca di un proprio dojo, che individuò infine in via Piacenza n.8.

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

IL MAESTRO IGNAZIO CUTURELLO

 

 

Ho sentito spesso ripetere che il tipo di allenamento che si faceva allora era molto più duro di

oggi.

 

- Sì, si praticava anche e soprattutto per rafforzare lo spirito. Siccome mi piaceva questo aspetto

‘spirituale’ dell’allenamento, l’avevo già ricercato nella pratica del judo. Quando è arrivato il

maestro Koike a Milano, io avevo letto che in Giappone facevano il kan-geiko, l’allenamento

invernale. Per una settimana o dieci giorni caloriferi spenti, scaldabagno spento, acqua fredda,

finestre aperte, allenamento dalle cinque alle sette, durissimo. Mi ricordo che sono andato da

Koike a suo tempo e gli ho chiesto: “Perchè non facciamo il kan-geiko?” Lui mi guarda con aria

schifata e dice: “No, italiani niente kan-geiko!” “Guardi che gli italiani sanno essere anche più

tosti dei giapponesi!” Lui fa: “Vediamo...” E il giorno dopo ha messo fuori il cartello “Kangeiko”.

Mi sono preso le maledizioni di tutti gli altri ed è cominciato il kan-geiko. Tutte le mattine

l’abbiamo fatto, il maestro Koike è rimasto molto sorpreso e alla fine mi ricordo che è arrivato con

una sveglia grande così. Mi ha regalato la sveglia come ricordo del fatto che ogni mattina

dovevamo svegliarci alle quattro.

Allora, chiaramente, quando è arrivato il maestro Shirai, ho chiesto anche a lui: “Maestro,

facciamo il kan-geiko?” Lui dice: “Bene, facciamolo!”, e sorride. Lui faceva così: “Oggi facciamo

per due ore solo seiken chokutsuki in kibadachi. Da impazzire. Il giorno dopo arrivano due

canadesi... Arrivano questi due maestri canadesi e il maestro dice, sornione: “Anche loro vengono

a fare il kan-geiko stamattina. Io detto ‘Meglio non venire’ ma loro volevano venire lo stesso”.

Quel giorno c’erano i calci. Noi abbiamo cominciato piuttosto morbidi ma i due canadesi, non

sapendo che tutta la lezione sarebbe stata sui calci, hanno cominciato forte, una vera follia. Dopo

mezz’ora erano sul pavimento in preda ai conati di vomito, non sono riusciti a continuare

Una volta, eravamo soli io e lui in palestra, mi ha proposto di allenarci insieme. Io tutto contento

ho accettato non sapendo cosa mi aspettava: mi ha fatto fare cento Bassai dai. È un incubo, perché

incominci anche non troppo forte, però man mano che vai avanti devi sempre aumentare la

potenza. E li ha fatti tutti anche lui, non è che dicesse : “Fai cento bassai dai” e poi stesse a

guardare. Arrivato a un certo punto, vero il trentesimo kata, pensi: “Non arriverò mai”.

Dopodiché entri in una specie di trance, e alla fine è il corpo che va, poi a un certo punto hai dei

crolli improvvisi...impari a conoscerti veramente, con tutte le tue debolezze. Dici a te stesso:

“Basta...non ce la faccio più...impazzisco!” ma poi senti la voce del maestro: “Ancora! Più forte!

Ancora!...

 

- Mi vuoi parlare del leggendario “corso istruttori” dell’A.I.K.?

 

Perlati, Balzarro e Guaraldi), io, Parisi e Ottaggio di Genova. Poi l’anno dopo hanno cominciato a

venire Zoia, Montanari e tutti gli altri... Ma quell’anno più che botte io non ricordo. Dopo ogni

lezione tornavo a casa con un occhio nero. Il corso istruttori erano solo botte, jiu kumite. Mi

dicevo: “Ma che corso istruttori è?”

All’inizio - mi ricordo la prima lezione, davanti a tutti, il maestro che dice: “Jiyu kumite, Fassi

venire!”. Io vado su, mi metto in guardia, pam, un maegeri in pancia, vado giù. Mi rialzo, un

mawashigeri in faccia...io penso: “Ma non bisogna controllare?” Mi arriva un cazzotto qui sul

naso, vado giù di nuovo. Allora ho pensato: “Forse vuole vedere il mio spirito”. Allora mi sono

rialzato e gli sono andato addosso come una belva. Chiaramente non so cosa mi ha fatto, di karate

non ne sapevo molto ma di judo sì così l’ho preso, gli ho fatto fare un bel volo. Lui arrivando a

terra mi ha colpito(controllando) e scherzosamente mi ha detto: “Ippon” però poi ha aggiunto

“Bravo, bravo”.

Ricordo anche un altro corso istruttori, lui lo chiamava così ma non è che ci spiegasse qualcosa: il

corso istruttori erano solo botte a non finire. Per cui era un incubo andarci, e poi gli altri erano

tutti tosti e più giovani di me. Ricordo una volta che c’era stata una dimostrazione al Palalido,

Balzarro non aveva controllato un colpo e aveva dato un pugno tremendo a uno...E il giorno dopo

avevamo il corso istruttori, il maestro Shirai fa fare kumite e come primo partner sceglie proprio

Balzarro e lo colpisce in pieno. Mi ricordo di aver visto gli occhi di Balzarro rovesciarsi e lui

diventare bianco e andare giù come uno straccio. Poi è toccata a tutti gli altri. Falsoni, che era un

grande combattente, ha reagito, ha cercato di contrastarlo, ma le ha prese ugualmente. Ricordo

che dopo, nello spogliatoio, Falsoni con due monete cercava di raddrizzarsi il naso.

Io ero il più anziano, ero l’ultimo della fila, ho pensato: “Stavolta vendo cara la pelle”. Shiraicon

me forse ha voluto strafare, è partito con mae tobigeri, io l’ho centrato in pieno con ushirogeri.

Ero terrorizzato e ho pensato: “Adesso sono morto!”. Ho messo giù il piede e ho tagliato la corda.

Lui mi ha inseguito per tutta la palestra finché mi ha preso, mi ha tirato giù il gi – mi ricordo che

mi sono rimaste tutte le strisciate delle unghie per un sacco di tempo - e mi ha urlato “Non devi

scappare!” Io gli ho risposto: “Maestro, cosa devo fare?” Alla fine però non ha infierito, si è

messo a ridere e ha detto: “Bene, bene”.

Questo spiega un po’ lo spirito che c’era, creato anche da un ambiente duro. Oggi è molto diverso,

oggi non si potrebbe fare più. Allora era una roba da impazzire, ci si rovinavano le ossa e le

articolazioni con giri a saltelli, era una roba folle, però si diceva “Per lo spirito va bene”.

 

La squadra dell’AIK vincitrice agli Europei di Vienna del 1968: Zoja, Parisi, il M° Shirai,

Balzarro, Baleotti, Ottaggio, Urtis.

 

La squadra dell’AIK vincitrice agli Europei di Vienna del 1968: Zoja, Parisi, il M° Shirai,

Balzarro, Baleotti, Ottaggio, Urtis.

 

- Fuori dalla palestra incontravate il maestro Shirai?

 

- Lo vedevamo anche fuori, però era più duro di adesso. Poi si è molto addolcito, ultimamente è

parecchio tempo che non lo vedo ma è molto diverso rispetto a una volta, e giustamente. Quello era

un periodo in cui bisognava fare così, il karate è esploso in fretta anche grazie a questa

durezza...Con questo sistema i primi che sono venuti fuori sono diventati bravissimi in poco tempo:

già dopo due anni un Falsoni, un Montanari erano già bravissimi, anche perché loro avevano

molto più tempo per allenarsi Oggi, prima di vedere uno di quel livello, ci vuole molto più tempo.

Anche se la spiegazione era netta: “Zenkutsudachi è così, kokutsudachi è così”, non osavi

sbagliare: ti arrivava un maegeri in pancia. Se il kibadachi non lo tenevi, ti arrivava un calcio alla

gamba, per cui c’era un’attenzione moltiplicata per dieci e questo ha fatto in modo che in

brevissimo tempo si creassero dei campioni. Il maestro Shirai diceva: “Io penso: faccio uno molto

bravo, poi penso: adesso faccio questo più bravo di lui”, quindi creava tra i suoi allievi una

continua competizione. Dopo due anni-tre anni di allenamento sembrava di vedere in azione dei

giapponesi.

 

-In che rapporto era il Maestro Shirai con gli altri maestri giapponesi?

 

 

- Quelli della JKA ogni tanto si incontravano, purché ci fosse sempre una netta separazione dei

ruoli: tu ti fai i tuoi affari, io mi faccio i miei. Mi ricordo sempre che il Maestro Shirai diceva:

“Adesso viene il maestro tal dei tali che vi fa lezione. Lui vi farà vedere dei kata magari un po’

diversi da come li faccio io. Quando vi allenate con lui fate come dice lui, quando vi insegno io fate

come vi dico io”. Era molto più profondo invece il suo rapporto col maestro Kase, lo considerava

sempre il suo maestro, allo stesso livello di Nishiyama. Infatti, quando Kase ha terminato il

contratto con la federazione belga ed è rimasto senza lavoro, il maestro Shirai lo ha invitato a

Milano a stare con lui. Ha preso in affitto una seconda palestrina in via Piacenza e il maestro Kase

insegnava a un gruppo e Shirai insegnava a un altro gruppo. Dopodiché io sono andato dal

maestro Pléè e gli ho detto: “Ho conosciuto questo maestro, anche se è della JKA non è un

rompiballe, è un grandissimo maestro, te lo porto su. Abbiamo fatto uno stage insieme e il maestro

Plée lo ha preso a insegnare a Parigi. In seguito il maestro Kase ha invitato il maestro Kenji

Tokitsu, che era terzo dan della JKA. Quando è arrivato in Francia io l’ho conosciuto, era stato

allievo del maestro Kase e faceva karate un po’ come lui, ma in seguito ha voluto staccarsi e creare

una propria organizzazione.

 

-Quando e perché ti sei staccato dal maestro Shirai?

 

- Nel 1976 Perlati mi ha parlato del m° Chang. Aveva incontrato questo maestro cinese con cui si

allenava a Bologna e faceva tai chi chuan e shaolin. Perlati trovava interessante questa esperienza

perché, diceva, sono i progenitori del karate. Così, grazie a Perlati, ho conosciuto il maestro

Chang che poi ho invitato a Milano. Il Maestro Shirai era perfettamente d’accordo, anzi all’inizio

il maestro Chang era nella Fesika, praticamente si erano messi assieme. A un certo punto però,

quando si è messo d’accordo con il gruppo di Roma, Shirai mi ha detto: “Guarda che adesso devi

mandare via il maestro Chang, perché a Roma hanno un altro stile di kung fu, se vuoi fai con

loro”. Io gli ho risposto: “A me non interessa il kung fu, a me interessa il maestro Chang”. Allora

il maestro Shirai mi ha detto: “Allora tu non puoi più venire da me, perché noi facciamo

federazione con quelli di Roma”. Questo è stato il motivo della rottura, però io sono sempre

rimasto in buoni rapporti con lui, è lui che mi ha mandato via: prima dell’unificazione con la Fik il

maestro Chang gli andava benissimo.

Anche con il maestro Tamano (che insegnava kobudo e Goju-ryu di Okinawa) Shirai non ha mai

avuto problemi, anzi diceva: “Facciamo kobudo anche noi” e difatti veniva anche lui a lezione e ha

praticamente obbligato un gruppo dei suoi allievi a fare kobudo. Si era messo la cintura bianca

perchè diceva: “Io sono cintura bianca di kobudo”. Io stesso ero imbarazzatissimo ma il maestro

Shirai mi diceva: “Non posso imparare kobudo se metto cintura nera. Tu Fassi sei già cintura nera

di kobudo, allora io imparo da te, tu sei il mio maestro”.

 

 

LE CINTURE NERE DEL NOSTRO GRUPPO

 

 

-Come erano ai tuoi tempi gli esami di Dan?

 

- Erano molto seri, bisognava fare tutto il programma, non erano ammessi errori. In genere però

quando ‘lui’ diceva: “Puoi fare l’esame” significava che ti giudicava pronto. C’erano comunque

periodi in cui c’erano parecchi bocciati e altri di maggior indulgenza. Quando ho fatto l’esame di

5° dan a Venezia c’era tutta la nazionale. Io mi ricordo che in seguito a un colpo non controllato

avevo il labbro aperto e fiotti di sangue che venivano giù. Ho dovuto fare kumite con Perlati

tenendomi stretto il labbro così,tra le dita di una mano. E allora ho pensato: “Cosa faccio? Con

una mano sola non posso difendermi, devo attaccare!” Mi sono avventato contro di lui...e questo a

Shirai è piaciuto moltissimo, in quell’esame ha promosso solo me e Baleotti, gli altri erano

arrabbiatissimi. Il dolore più forte però l’ho provato quando poi sono andato al pronto soccorso, a

farmi dare i punti senza anestesia. Ancora adesso ho l’interno della bocca in parte anestetizzato da

quel taglio.

-Tra i compagni di allenamento chi ricordi con particolare simpatia?

- Molti avevano un po’ lo spirito del campione, altri invece erano molto umani, ad esempio Abruzzo

e Baleotti. Altri invece volevano emergere, quando facevano kumite ti toccavano per farti vedere

che erano più forti...Anche Tammaccaro ha sempre mostrato estremo rispetto per me perché ero

stato il suo primo maestro. Così Perlati e Balzarro. In generale i primi allievi , Parisi, Ottaggio,

quelli di Bologna, erano estremamente positivi. Con Falsoni ero molto amico, però nel kumite era

molto aggressivo, anche con gli amici. Fugazza era straordinario, nel kumite era un vero signore.

La seconda generazione, forse per bisogno di emergere e farsi strada, era più aggressiva.

 

- Secondo te qual è la ragione per cui il karate ha perso parte della sua presa sulle nuove

generazioni?

 

-Forse tutte queste lotte interne l’hanno danneggiato, ma di per sè il fatto che ci siano tanti stili,

che non siano uniti, è un fatto naturale ed è sempre stato così nelle arti marziali tradizionali. Uno

dice: “A me piace il M° Shirai, seguo lui, quello è il mio maestro, poi non mi importa di tutto il

resto”. Un altro dice: “No, a me invece piace questo stile, seguo quello”: dov’è il problema? Se

invece andiamo sul versante sportivo, allora c’è bisogno dell’unificazione. Secondo me il problema

è proprio questo, che oggi il karate è diventato troppo sportivo. Anche chi dice “tradizionale” in

realtà non fa karate tradizionale. Il maestro Kase non ha mai fatto una gara in vita sua, non sapeva

neanche che esistessero, infatti diceva: “Gara come gioco, fare per pubblicità” e roba del genere.

Però ornai la gara è diventata la cosa essenziale e così si è snaturato tutto. La stessa cosa è

successa nel kendo: adesso quello che importa è il colpo velocissimo, che arriva, però quel colpo lì

non avrebbe nessuna efficacia se fosse fatto con una katana vera. Miyamoto Musashi diceva: “La

velocità non è importante, importante è il tempo di esecuzione”. Oggi se la tecnica non è completa

non importa, così poco alla volta l’arte si snatura. Nella gara cosa è importante? Vincere!

Nell’arte marziale invece è essenziale non perdere, non morire, la difesa è più importante. In una

gara di karate, se non c’è contatto, chi se ne frega della difesa? Tanto lui non dovrebbe toccarmi,

quindi io non penso a difendermi, penso solo ad attaccare. Secondo me in tutte le arti marziali c’è

questo scontro tra la mentalità marziale e la mentalità sportiva. All’inizio nel judo c’era una sola

categoria, perché anche il piccolino doveva battere il grosso, poi in realtà non era così perché il

grosso alla fine vinceva, se aveva la tecnica. Però un “piccolino” di judo era terribile perché

pesava 60 chili e doveva combattere contro chi ne pesava cento. A un certo punto qualcuno ha

detto: “Non è giusto, cominciamo a fare le categorie di peso”. È importante che vincano in tanti,

che ci siano tante coppe, che tante società vincano, così sono contenti di appartenere alla

federazione, tutti hanno vinto e ci sono un sacco di medaglie.

Si segue la moda dello sport moderno, anche nella specializzazione. Ad esempio nel judo si

comincia a dire: “Quali sono le tecniche veramente efficaci? Ce ne sono poche: uchimata,

osotogari, questa, quell’altra. Allora delle 40 tecniche di base del judo solo 3 o 4 sono importanti,

studiamo quelle 3 o 4. Poi abbiamo cominciato a specializzarci su una tecnica sola: una, una una,

quella deve diventare la tua tecnica, così succede che per tutto il giorno uno fa una sola tecnica. Da

un certo punto di vista può andare bene, con questa tecnica posso proiettare anche il campione del

Giappone di judo, però tutto questo snatura e impoverisce il patrimonio tecnico delle arti marziali.

 

- Questo sembra chiarire la tua posizione sull’agonismo.

 

Io non sono contro la gara. E’ l’unico modo per misurarti con qualcuno, ad un certo punto della

tua vita devi fare questa esperienza, però oggi si esagera perché si finisce per avere solo

quell’esperienza. Io ai bambini non faccio più fare le gare perché alcuni di loro (ad esempio Paolo

Lorini) sono diventati campioni italiani, però ho visto altri bambini piangere disperatamente

perché perdevano, con i genitori che gridavano ai propri figli “Ammazzalo, ammazzalo!” Allora se

si fanno delle gare per i bambini devono vincere tutti, un premio per il più bravo, uno per il più

assiduo e così via. E’ però importante rendersi conto che al 90% della gente che si iscrive nelle

palestre non gliene frega niente delle gare, sono portati all’agonismo dai loro istruttori. Vengono a

fare karate o perché ci va l’amico, o per imparare a difendersi, o magari per diventare Bruce Lee.

Andando avanti quei pochissimi che magari sono dotati vincono una gara, trovano soddisfazione

nell’agonismo. Però, se questa è la loro unica motivazione, è sbagliato, non è una cosa completa:

passa l’età, non vinci più e interrompi la pratica. Io, all’età di 71 anni compiuti, malgrado i miei

impegni professionali, mi alleno ancora un’ora al giorno e non penso certo di smettere!

 

 

IL SALUTO ALLA FINE STAGE

 

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